A un certo punto arriva il mandato di voler dire una cosa immensa nel tuo romanzo, nel tuo racconto. Senti di volerla dire, di aver iniziato a scrivere per dirla. La cosa è immensa ma sottile e invece a te viene fuori un immondo sermone. Fa schifo è da buttare, sono tante parole ma nessuna è quella che ti serve, forse quella parola, quella frase, non è mai stata detta e tu non sei migliore dei tanti che ci hanno provato invano, non la troverai neanche te. Spesso per dire una cosa grande, per dire una cosa immensa, ingestibile, una cosa che non sai neanche come dirla, ti devi affidare a una cosa molto più piccola, infinitesimale, conosciuta, addomesticata dall’abitudine.
Le cose troppo grandi, le scoperte troppo grandi, quando arrivano come consapevolezza, nella vita, ti accecano, ti lasciano stordito, le senti, eccome se le senti, ma il più delle volte non sai come comunicarle.
E allora che fare?
C’è un racconto di Elizabeth Strout, “Sicurezza,” dalla raccolta “Olive Kitteridge” che indica una via. Lì questa cosa che cerchiamo di fare risulta evidente. Come lo racconti il fatto che a un certo punto anche per una persona, come un figlio, per cui sei stata tutto, fino a un certo punto della tua vita, di colpo non sei più nulla, o quasi? Come dire questa cosa immensa che alla fine veniamo messi da parte, che è nella natura delle cose, che la sicurezza non fa mai davvero parte della nostra esperienza umana? Ecco cosa succede in questo racconto. Olive è vecchia e irascibile, va a trovare il figlio, che ormai vive all’estero, che ha una nuova compagna, cose che lei non sa più di lui, attimi di vita intensa e segreta dai quali lei è esclusa. Sembra, però, che le cose stiano andando bene, sembra che tutto stia andando alla grande. Però Olive dentro di sé sente che lui l’ha messa da parte, o almeno lo sospetta, sente anche che lei è stata una pessima madre e che ormai ha perso la sua autorevolezza.
E a un certo punto della storia arriva una prova, tangibile, non un pensiero, che le dà ragione. Un movimento logico, tematico, di trama, abbastanza complesso eppure semplice. Ma a cosa viene affidato tutto questo? A un gelato, un gelato che macchia la camicia di Olive. Lei resta in giro con questa camicia macchiata e non si rende conto della macchia finché non si guarda allo specchio. Poi si vede nello specchio vede la macchia, pensa che suo figlio e la sua compagna non l’hanno avvertita, non hanno sentito la necessità di avvertirla, perché ormai la considerano una cosa, un essere trascurabile e goffo, una persona della quale non importa a nessuno se va in giro imbrattata di gelato o in ordine. Allora tutto viene fuori, tutto quello che è sommerso sul suo legame con il figlio, tutta la sua fragilità, la sua ferita. Il fatto è che noi siamo entrati con lei in quella stanza e ci siamo guardati allo specchio, e come lei, con lei, ne siamo usciti furenti e feriti. Cosa avremmo avuto senza il gelato? Parole, una cosa detta. Ma “la cosa temuta, che accade sempre” batte la parola, il chiacchiericcio a vuoto dello scrittore insicuro.
In foto: il mio gelato preferito, semplice, alla fragola, come quello che amava tanto Baby Jane Hudson.