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Scrivere il dolore

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Scrivere il dolore

a Brooklyn nella macchina scassata con Tralalà

Emanuela Cocco
Jan 19
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Il dolore, scriveva Oscar Wilde nel carcere di Reading, è la più sensibile tra tutte le creature. Aveva amato Bosie, un giovane pretenzioso e rapace, da lui si era fatto portare via la dignità e ogni bene materiale, eppure gli era caro il suo dolore, il dolore era una cosa che Bosie gli aveva donato, ed era stato anche un lungo viaggio, che Wilde aveva intrapreso, fino a un cerro punto, di sua volontà.  A ogni costo, diceva, voleva che l’amore restasse nel suo cuore, altrimenti di lui non sarebbe rimasto nulla altro se non qualcosa di vuoto e triste, come un tintinnante ciondolo. Il dolore, invece, come insegna Emanuel Carnevali, è un’esperienza piena di cose, accompagnata da una grande musica. Così, Wilde, scrisse la sua lunga a lettera ad Alfred Douglas, una lettera intrisa di dolore, e quella fu la via che scelse per rivivere tutto, per abitare ancora una volta l’avventura che alla fine lo aveva spezzato, ma anche per preservarla dentro di lui, con intatto tutto l’amore che, tra le offese, la lussuria e il disprezzo, lo avevano accompagnato.

Il dolore è un’occasione di conoscenza ma può essere anche una consuetudine, la sola cosa che si conosce da sempre e che ci cattura, Uno scrittore, diceva Giampaolo Rugarli, non conosce nient’altro che la sua paranoia, la quale gli arma la mano. Il dolore è uno strumento di indagine ma anche un metodo di archiviazione. È preservare quella che Dickinson chiamava un’impronta di memoria.  Il suo territorio, sempre Wilde, è sacro. Per portarlo sulla pagina serve, forse prima di tutto, la consapevolezza: occorre mettersi in viaggio, fuori, dentro di noi, non importa. Una cosa che fa il dolore è che ti costringe a muoverti, anche quando sembra spezzarti, lasciarti finito e immobile chissà dove, il dolore, di fatto, ti ha appena portato via da dove eri, dalla tua vita di prima, e ti ha messo in viaggio, che lo volessi o no, verso una terra che, almeno al principio, quando il dolore è alla sua prima apparizione, può apparire esotica.

Il dolore non è una cosa statica, la sua forma è plastica, mutevole, mostruosa o quasi impercettibile, ammantata dall’ insignificante oppure eccezionale, comunque una scoperta, ma per lo più incomprensibile. Per venire a patti con il dolore, la storia trova occasioni in cui i personaggi hanno modo di incontrarlo, conoscerlo, oppure occasioni di fuga, o manipolazioni per sottrarsi al confronto. Di contorno al dolore ci sono bugie, accomodamenti, rese dei conti, scene isteriche e impassibilità. Va bene tutto. Tutto serve al dolore, nulla viene risparmiato. Per scrivere, per provare a ritrarlo, non ci si può limitare a una visione diretta, forse, almeno nello spazio del racconto in cui abbiamo celto di farlo vivere, ci si deve affondare dentro.

Così seguiamo Tralalà, la prostituta altezzosa di Ultima fermata a Brooklyn, dentro la macchina scassata in cui conoscerà il dolore del mondo nella sua carne, questo mondo che non l’ha amata mai, capace solo di penetrarla con cose che la feriscono, siano oggetti, uomini, oppure la parvenza di un sentimento che però a lei non è destinato. Il dolore è qualcosa che le entra dentro come la bottiglia con la quale viene stuprata fino a toglierle la vita ma per lei è pur sempre meglio dell’amore, per lei, per molti di noi, perché l’amore la terrorizza più della sofferenza, perché contiene dentro la possibilità di una sofferenza più grande ingestibile, perché pura e indefinita. Anche mentre la fanno a pezzi, Tralala non dirà nulla, perché il dolore sa essere taciturno, se ne può stare zitto e fermare il tempo, perché è fatto anche di questo, della materia di cui sono fatti i sogni, è per questo che Miss Havisham, in un romanzo di Charles Dickens, se ne sta nascosta nella sua fetida casa, con indosso il logoro abito da sposa. Ma il dolore può anche urlare, una sola parola che esplode a dire tutta una vita con la sua domanda mai esaudita. In una commedia di Annibale Ruccello, il dolore entra in una parola e rimane lì fino alla fine dello  spettacolo.  Prima di stramazzare al suolo, prima di farla finita, perché il dolore è troppo e deve venir fuori, deve essere esploso contro chi lo porta dentro, Jennifer sussurra la parola: mamma. A Milano, in un romanzo di Scerbanenco, la ragazzona con il ritardo mentale che il padre teneva al sicuro nella casa infiocchettata, come dentro una teca, poco prima di essere ammazzata, dopo essere stata buttata in strada, dopo che l’hanno prostituita e violata in ogni modo, la ragazzona bella che il padre custodiva come un gioiello raro, rapita da criminali da due, la ragazzona bionda che finirà carbonizzata, prima di morire urlerà solo: papà. Perché, che lo vogliamo o no, il dolore ci mette al mondo. Il dolore, ancora Wilde, crea mondi. È nostra madre, nostro padre, e nel corso della vita, nel corso di un romanzo, trova infiniti modi per ricordarcelo.

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