Quello che vediamo morire, una volta è nato. Quello che crolla un giorno è stato eretto: un’ambizione, un amore, la convinzione di una vita. Il crollo, scrivere il crollo, come si fa, come è stato fatto?
Chiusa nella sua stanza bianca, completamente sola, Veronika Voss, ha paura della sua ombra e del suo volto riflesso nello specchio, non sa se sia giorno o notte. Tutto è accecante in quelle stanze e la luce la uccide perché le porta via ogni illusione. Per scrivere il crollo potremmo partire, quindi, da questa immagine che copre la realtà, questo sistema di sopravvivenza che il personaggio ha indossato per tanto tempo e che poi la vita ha fatto a brandelli. Il crollo arriva e la sua forma cade a pezzi. Qualcuno osserva la scena, è lo stesso che quell’abito lo aveva indosso, fino a un attimo prima. Ora guarda sé stesso, senza che nulla si frapponga tra lui e l’immagine della sua completa nudità. Il crollo: quando anche l’ultima maschera ci è stata strappata di dosso e ci si ritrova nudi e soli, inermi davanti all’immagine in alta definizione di quello che siamo, tirate via le nostre strategie di accomodamento. Il crollo, un movimento in due tempi, campo e contro campo. Quello a cui ci siamo aggrappati, noi che lo abbiamo appena perso e lo osserviamo cadere.
Fassbinder lo imprime sul volto di Veronica Voss in crisi di astinenza, pallida e spaventata, che cerca di rifarsi il trucco e resta tramortita da quello che vede nello specchio. Veronika e il suo tormento. Niente luci soffuse, niente abito di scena, solo Veronika, la tossica, la vittima di un carnefice che la lascia sola proprio all’ultimo atto della sua discesa. Veronika, in un film di Fassbinder, precipitata nell’immagine insostenibile della vita privata della sua minima, vitale, mistificazione. Ma come suona, una frase dopo l’altra, la caduta di un uomo, o di una donna, nel bel mezzo di una storia? Dopo aver speso la vita tra le frasi, dopo aver sofferto le frasi, il crollo raggiunge Francis Scott Fitzgerald di sorpresa, anni e anni prima di quanto avrebbe potuto aspettarsi, ed è come un’improvvisa emorragia di vitalità, la perdita delle parole. Il crollo è silenzioso. Arriva come un colpo interno, produce un’incrinatura in due tempi, è un desiderio di pace mortifera: lasciatemi in pace, dice. E lo trasforma in un uomo che un tempo amava e che ora al più mette in scena solo il tentativo di amare. Momenti: quello della luce verde, quello del piatto crepato. Del crollo, quando lo si scrive, si possono scegliere diversi punti di attacco, quando lo intuiamo, quando lo sentiamo arrivare, quando ci uccide, quando sopravviviamo alla sua venuta. Come nel suo romanzo, dal titolo rubato a un verso di Keats, il crollo e la sua storia segnano un’uscita di scena definitiva. Il crollo è uno scomparire a sé stessi, una rivelazione che annichilisce. È il sonno alle tre del pomeriggio, dopo aver bevuto vino in un bicchiere sporco d’olio, la vita che si piega agli eventi, che confonde il giorno con la notte, tanto che importa, in un racconto di Raymond Carver. Il crollo è quel movimento verso il basso, un reclinarsi che appare al momento, definitivo. “E adesso è finita. Qualcosa era successo, una volta. E adesso era tutto finito. Non provavo neppure dolore, però, né rimorso o malinconia o roba simile. Mi sentivo solo dentro un gran vuoto come se ormai non potesse capitarmi più niente. Niente fino alla fine dei secoli.” Il crollo in quel racconto di Silvio D’Arzo: la fine di un destino, e di una promessa che la vita sembra fare a ognuno di noi. L’ammissione dell’imponderabile, che travolge la vita di un uomo intelligente in un dramma di Friedrich Dürrenmatt, quella cosa che quando comincia non fa neanche più male, ma ha un terribile odore, che arriva e si porta via tutto, quella grande stanchezza, quella grande rabbia al pensiero che, qualsiasi cosa sia, non si avrà più la possibilità di portarla a termine.
Accade in un racconto di Hemingway, il crollo definitivo e silente della cancrena, accompagnato dal chiacchiericcio isterico dei rimpianti, la lista impietosa delle occasioni mancate, come quella promozione persa quando sembrava già cosa fatta, in quel racconto di Jhon Cheever, l’occasione sfumata di svoltare la vita e confermare l’amore, riscaldati dal tepore della pentola d’oro, il crollo della speranza nella vita di Ralph e Laura, sempre “alle soglie della fortuna”. Il crollo scrivere il crollo, comporta prima di tutto, individuare il luogo in cui è stato eretto l’edificio che vedremo inabissarsi tra le frasi di un racconto, di un romanzo, nel giorno buio del nostro scontento. Tanto più vivida sarà quella speranza, quella immagine fantasma della versione migliore di noi, che mai ha visto davvero la luce, tanto meglio. Quelle cose che cadono sono qualcosa in più dei sogni e meno dei fatti, e noi di quello scriveremo. Non sapremmo come chiamarle, altrimenti, queste sviste di senso, e smottamenti e perdite di equilibrio. Sono quello che sono, forse sono, giusto solo illusioni, ma come diceva bene Leopardi “toglietele, come sono tolte, cosa rimane?” Perché a volte, raramente? non saprei dirlo, il crollo apre una breccia nel tempo della storia e nell’intimo dei personaggi, a volte, sempre la vita, ancora in quel racconto di Cheever, quella immagine che ci vede nudi e inermi, invece di ucciderci ci salva, quegli occhi, accecati dalla nuda verità, cominciano ad abituarsi a quel fatale nitore e scoprono, tra le macerie di quello che avrebbero voluto essere, il senso puro e ultimo di quello che sono, riverberante oro, sonante come le monete di tutto quello che non è possibile pagare, se non con la vita, sempre la vita, in un racconto di Cheever, o altrove, nello sguardo di chi ha perso ogni cosa, per poi ritrovare intatto, il desiderio di vivere e amare tutto, tutto di questa vita, tutto senza sconti, anche la propria sconfitta e i suoi imperscrutabili doni.
“Il suo sorriso, le sue spalle nude avevano cominciato ad agitare le forme e i simboli indecifrabili che sono il banco di prova del desiderio, e la luce della lampada sembrava ravvivarli, dar loro calore e diffondere quell’inesprimibile senso di appagamento, quel benefico oblio che il primo sole di primavera reca a ogni sorta di spossatezza e di disperazione. Il desiderio di lei lo emozionava e lo confondeva. Ecco, tutto era lì, e il riverbero dell’oro gli sembrò allora circonfondere le sue braccia tese.”
(“La pentola d’oro” da I racconti di Jhon Cheever, Feltrinelli. Traduzioni di Adelaide Cioni, Laura Grimaldi, Leonardo Giovanni Luccone, Franco Lucentini, Marco Papi, Sergio Claudio Perroni)
SCRIVERE IL CROLLO – la lista:
Veronika Voss (Die Sehnsucht der Veronika Voss) un film di Rainer Werner Fassbinder
Il crollo, una confessione di Francis Scott Fitzgerald
Tenera è la notte, un romanzo di Francis Scott Fitzgerald
Stare attenti, un racconto di Raymond Carver
Casa d’Altri, un racconto di Silvio D’Arzo
La promessa, un romanzo di Friedrich Dürrenmatt
La pentola d’oro, un racconto di Jhon Cheever
Zibaldone, un forziere di pensieri di Giacomo Leopradi
Grazie per aver letto questi pensieri notturni, restiamo ancora un po’ insieme, ho altre cose da dirti. La prima.
Mentre scrivevo non ascoltavo che questo, non lo trovi meraviglioso?
Quello del viandante non è proprio un crollo, forse è il passo successivo al crollo, quando ci si mette in viaggio nel proprio deserto di ghiaccio e non si fa più ritorno.
Tornando a Veronika Voss, mi piace pensarla ancora sotto l’ombrello di quello che sconosciuto che, ameno per qualche istante, la fa sentire al sicuro dalla pioggia, e che la fa ridere.
E poi:
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Emanuela