Ciao, è lunedì notte, e questo è il nostro appuntamento con la newsletter di Scrivere di notte su Substack. Prima di lasciarti solo e sola a leggere ho delle cose da dirti.
La prima: questa volta, insieme alla mia riflessione sulla scrittura, c'è un regalo di Claudio Kulesko, un contributo fondamentale per chi vuole scrivere qualcosa che abbia a che fare con la tensione, l'azione, la paura. Non ve lo perdete, è subito dopo il mio. Claudio Kulesko è stato uno degli autori ospiti di Satantango, il libero e gratuito laboratorio di scrittura organizzato da Scrivere di notte e il Pasto Nudo e sarà il tra i docenti del prossimo Laboratorio online di scrittura thriller e thriller speculativo organizzato da Scrivere di notte. (se vuoi essere informato sulle date e le modalità di partecipazione, scrivi a scriveredinotte@gmail.com
La seconda: sabato 11 febbraio si è svolta la prima parte del Laboratorio di Editing e scrittura online. STRUTTURARE, organizzato da Scrivere di notte a cura di Emanuela Cocco e Antonio Russo De Vivo. Abbiamo parlato di come si struttura una storia, siamo partiti da cosa vuol dire pensare al testo come un sistema testuale composto da codici diversi, un campo di vasta estensione che ci mette alla prova su vari piani. Forma e contenuto, ideazione, assemblaggio, strategie del testo per costruire le relazioni di ordine, frequenza e durata, tra il tempo della storia e quello manipolato della narrazione. Dopo il laboratorio online ognuno dei partecipanti lavorerà con Antonio Russo De Vivo a un’esercitazione su un progetto di scrittura e poi avranno accesso a un incontro di tutoring individuale online. Il prossimo laboratorio è previsto per la prima settimana di aprile ’iscrizione, come sempre, è a numero chiuso, se vuoi saperne di più o per iscriverti e prenotare il posto scrivimi a scriveredinotte@gmail.com
La terza: come tutti, o quasi, mi sono guardata un po’ di Sanremo, e il giorno dopo mi sono andata a guardare il video di Elodie e ho pensato di vederci dentro (a me pare palese, ma magari mi sbaglio) un omaggio agli scatti di Nan Goldin, questo qui sotto è uno di questi, tanto per farvi capire di cosa sto parlando.
Poi ho girato un po’ in rete e ho scoperto (con quanto colpevole ritardo?) che lei è su Instagram e la possiamo seguire tutto. Bello, no?
E ora partiamo con Scrivere, per questa notte a cura mia e di Claudio Kulesko, che ringrazio tantissimo.
Scrivere e cominciare
l’uomo che scriveva libri nella sua testa
di Emanuela Cocco
Ecco un’amara, scomoda, verità, qualcosa con cui noi, che vogliamo dire di avere una storia tra le mani, noi che scriviamo, dobbiamo fare i conti: alla fine questa storia, quella che abbiamo tra le mani, di cui sappiamo tutto, di cui tutto abbiamo detto al mondo, la storia che preme alle porte della nostra vita nascosta, o sulle pagine dei nostri taccuini, se siamo stati tanto ligi al dovere da averne annotato i palpiti intermittenti, la storia da cui ci separa solo la volontà di scriverla, quella, se non poi non la scriviamo, ecco, quella storia non esiste. Prima o poi, ognuno di noi, o quasi, questa cosa finisce per capirla. Non è un bel momento. Ecco il dramma complicato che ci vede protagonisti: sogni come cigni selvatici, direbbe Ibsen, difficili da domare, impossibili da addomesticare, sogni superbi, ma, appunto, sogni.
Qui, invece, si tratta di cominciare a scrivere e allora, per iniziare come si deve, partiamo proprio da quello che ci impedisce di farlo, o che , almeno da una delle cose che contribuisce a farci procrastinare all’infinito. Sto parlando della tentazione di scrivere un romanzo perfetto, e bello, e perfetto, perfetto e autentico, autentico e maestoso, maestoso e inattaccabile, superbo, impeccabile, qualcosa che, forse, vive solo in un luogo inaccessibile a chiunque: la nostra testa.
Sì, la tentazione di scrivere libri nella propria testa e di lasciarli lì può essere forte e per questo vi consiglio di leggere subito questo racconto di Patricia Highsmith: “L’uomo che scriveva libri mentalmente”. Qui farete la conoscenza con E. Taylor Cheever, un uomo che, dopo un primo rifiuto editoriale, continua a ritirarsi ogni giorno nel suo studio e a scrivere, nella sua testa, un romanzo dopo l’altro. Sono tutti romanzi magnifici e incancellabili, perché non esistono. E. Taylor Cheever è un uomo felice e appagato, lui è davvero soddisfatto delle sue creature, sicuro e soddisfatto, e orgoglioso. Non teme stroncature o pareri parziali, la sua produzione di storie, tutte pensate e rifinite al dettaglio nello spazio della sua mente, va a gonfie vele. E. Taylor Cheever è furbo, è un uomo sveglio, e ha trovato il modo di fuggire il senso di inadeguatezza che ti prende quando inizia a scrivere qualcosa, la frustrazione che ti raggiunge quando non vieni compreso, la disillusione che si impadronisce di te quando ti accorgi che in fondo non è che il tuo mondo o quello degli altri sia cambiato poi così tanto dopo l’uscita del tuo romanzo. No, E. Taylor Cheever non verrà mai afferrato da queste sensazioni spiacevoli, da queste scocciature. Ma il ridicolo sì, quello lo raggiungerà, anzi ci vivrà immerso dentro, senza accorgersene, fino alla fine dei suoi giorni. E. Taylor Cheever è un uomo felice ma io non lo invidio, e voi? Che la sua storia vi sia d’esempio. Ecco qualche citazione dal racconto:
E. Taylor Cheever scriveva libri mentalmente, e non li metteva mai sulla carta. Quando morì, a sessantadue anni, lasciò un corpus di quattordici romanzi, che comprendevano centoventisette personaggi diversi di cui si ricordava alla perfezione. Andò così: Cheever a ventitré anni scrisse un romanzo intitolato La sfida eterna che fu rifiutato da quattro editori londinesi. Cheever, che a quei tempi era redattore aggiunto di un quotidiano di Brighton, diede in lettura il manoscritto a tre o quattro giornalisti e ad alcuni critici amici, che gli risposero suppergiù nello stesso tono brusco delle lettere di risposta degli editori londinesi: “I personaggi non sono sviluppati a sufficienza… i dialoghi sono artificiosi… il tema è confuso…Se vuoi che ti dica sinceramente cosa ne penso, ti dirò che non hai nessuna speranza che venga pubblicato, anche se ci lavorassi su di sana pianta…È meglio che questo te lo scordi, e ne cominci un altro.
Cheever aveva impiegato il poco tempo libero che era riuscito a strappare in due anni per scrivere il romanzo, ed era quasi giunto al punto di mandare all’aria il suo fidanzamento con Louise Welldon poiché le dedicava ben scarse attenzioni. Tuttavia, dopo il diluvio di stroncature ricevute dal suo libro, si fece coraggio e qualche settimana dopo la sposò. (…)
Acquistarono allora una bella casetta in città, a Cheyne Walk, e la arredarono coi mobili e i tappeti ricevuti in dono dalle rispettive famiglie. Nel frattempo Cheever pensava al suo secondo romanzo, e stavolta voleva che fosse perfetto ancor prima di mettere una sola parola nero su bianco. Ne era geloso al punto di non confidare nemmeno a Louise né il titolo né l’argomento e neppure discusse con lei uno qualsiasi dei suoi personaggi, sebbene avesse ben chiari in mente ognuno di loro, gli ambienti, le manie, i gusti e l’aspetto fisico compreso il colore degli occhi. Il suo prossimo libro sarebbe stato un capolavoro di scrupolosa esattezza, il tema avvincente, i personaggi vivi e autentici e i dialoghi stringenti ed efficaci.
Si metteva a tavolino quattro ore al giorno nel suo studio a Cheyne Walk, saliva dopo colazione e ci rimaneva fino all’ora di pranzo, poi tornava su fino all’ora del tè o della cena come fa qualsiasi scrittore quando lavora, ma a tavola non si lasciava sfuggire nemmeno un cenno delle sue reazioni, se si eccettua un 1877+53 e un 1939-83. Conti che gli servivano per rinfrescarsi la memoria sull’età o la data di nascita di alcuni personaggi. Mentre era immerso nei suoi pensieri, lo si udiva mormorare sommessamente.
Il libro, che aveva intitolato Il giocatore d’azzardo (ma nessuno lo sapeva tranne lui) gli prese ben quattordici mesi per rosolarlo e rifinirlo a puntino nella sua mente.
“L’uomo che scriveva libri mentalmente”, Patricia Highsmith dalla raccolta “Schegge di vetro” (Bombiani1998) traduzione di Enrico Groppali
“Slowly, slowly in the wind”, Patricia Highsmith, by William Heinemann Ltd, 1979
Dai cominciamo stanotte oppure domani, appena svegli. Prendete in mano qualcosa che avete scritto o pensato e poi messo da parte in attesa che fosse perfetto nella vostra testa e tirate giù una prima stesura senza mollare fino al traguardo delle prime tre cartelle. Sarà una prima stesura immonda, fiacca, stonata e impresentabile come tutti i primi tentativi, ma questa piccola brutta cattiva cosa sarà comunque meglio di una delle altisonanti balle che E.Taylor Cheever ha raccontato a se stesso e ai suoi cari.
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Ma non è finita qui, come ti avevo annunciato ora lascio la parola a Claudio Kulesko per questo pezzo strepitoso in cui ci parla di incipit della tensione.
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Erranza e speculazione
di Claudio Kulesko
Nulla di valore è stato fatto al mattino.
Lee Child
I. Metodo erratico e produttività subconscia
Non sempre chi scrive thriller, horror o crime fa ricorso a “scalette”, né sa fin da pagina uno dove andrà a parare. Si tratta di uno dei temi, tra tutti quelli riguardanti la scrittura e il suo metodo, meno trattati: quello del caso e dell’influenza della mente non cosciente sul processo di stesura di un testo di qualsiasi natura.
Nell’opera dello scrittore britannico Lee Child (creatore del ben noto vagabondo ed ex-poliziotto militare Jack Reacher) si possono individuare, facendo un po’ di attenzione, gli effetti di una strategia narrativa fondata sul “non sapere”. Prendiamo, ad esempio, l’incipit del sesto volume della saga, A prova di Killer (Without Fail, 2002):
Seppero di lui in luglio e rimasero in collera per tutto agosto. In settembre cercarono di ucciderlo, ma era troppo presto. Non erano pronti. Il tentativo si risolse in un fallimento. Si sarebbe potuto trasformare in un disastro, ma in realtà fu un miracolo, perché nessuno se ne accorse.
L’assenza di riferimenti, la sintassi affettata e l’ampio uso di contrasti producono nel lettore un effetto di spaesamento, che si va a sua volta a mescolare a un tipo di ridondanza che rimanda alla poesia, più che alla prosa.
Come lo stesso Child ha ammesso in più occasioni (tra le quali questo interessante resoconto stilato da Andy Martin per The Conversation), ogni volta che egli decide di cominciare un nuovo romanzo – evento verificatosi, finora, 27 volte in 27 anni – non ha la più pallida idea di cosa stia per accadere. Non solo il titolo ma persino il tema e il soggetto gli sono ignoti. Ciò allo scopo di preservare la spontaneità e la vitalità di un testo, per renderlo quanto più simile al resoconto orale – a qualcosa che contenga in sé, intatta, la potenza dell’atto immaginativo stesso. (Non a caso Child non consente che i suoi romanzi vengano in alcun modo manipolati da editor: per lui, la prima bozza rappresenta la stesura definitiva).
La tecnica sviluppata da Child per uscire da tale impasse consiste nel maturare una prima immagine – una singola immagine capace di essere per il romanzo ciò che il “Big Bang” è per l’Universo.
Ecco un estratto da “The Man With No Plot”, di Andy Martin, che documenta la realizzazione della prima riga di uno dei più recenti romanzi di Child:
Quando si sedette per scrivere la prima frase, tutto quel che aveva in testa consisteva di una scena, anzi, di un brandello di scena: un gruppo di persone sta seppellendo qualcuno, un tizio piuttosto grosso, usando una scavatrice. Non aveva la benché minima idea di chi fossero, né di cosa stessero facendo e neppure di chi fosse il tizio piuttosto grosso, di cui, tuttavia, conosceva il nome: Keever.
Così, scrisse la seguente frase: “Spostare un uomo grosso come Keever non era facile”. [...] Ma non sapeva nient’altro a questo punto.
Abbandonare la pianificazione significa farsi trasportare di scena in scena dalla scena stessa, in un crescendo di complessità. Per far ciò, tuttavia – e in particolar modo per evitare di scadere nella banalità – non bisogna assolutamente affidarsi all’“istinto” o, meglio, alle prime cose che ci vengono in mente. Non ne risulterebbero, infatti, che immagini stereotipate, simili a quelle viste in qualche programma televisivo o al cinema; più un atto di rammemorazione che di creazione.
Per costruire un incipit di questo tipo è necessario che la mente conscia sia invasa da materiali subconsci: ossessioni personali; immagini, suoni, odori o colori che ci perseguitano da anni e persino da decenni; eventi o persone che ci hanno segnato in modo profondo; pensieri che si ripresentano a noi in modo quasi compulsivo.
Di fatto, tra i temi più trattati da Cormac McCarthy nelle sue rare interviste, vi è proprio quello della produttività subconscia. Alla richiesta «Può descrivere parte del processo attraverso il quale trasforma delle idee in storia», posta da un gruppo di studenti che riuscirono a intervistarlo, McCarthy rispose: «La scrittura è qualcosa di molto subconscio, e l’ultima cosa che voglio fare è mettermici a pensare»; e, più avanti: «Scrivo quel che ho nella testa, quello che ho in mente [...] A volte, ho in testa delle immagini visuali che non corrispondono ad alcuna conoscenza specifica di un posto.».
In un importante articolo pubblicato sulla rivista Nautilus, “The Kekulé Problem”, McCarthy ha ipotizzato che l’inconscio non sia altro che un gigantesco deposito di abitudini e adattamenti primordiale – una sorta di “memoria interna” che opera, al contempo, anche come software.
Dargli ascolto, ossia cogliere parte di ciò che riesce a emergere a livello subconscio, significa mettere in moto l’immaginazione. A patto che si intenda l’immaginazione come un duplice processo, composto da
a) Una parte passiva, che si limita a costruire associazioni tra percezioni sensoriali (ciò che si vede, sente, gusta, annusa e tocca), pensieri ed emozioni. [ex. L’uomo corpulento, la sepoltura, la paura e il senso di gravità].
b) Una parte attiva, che consiste nell’elaborare, decodificare e dispiegare sul piano cosciente il significato e il senso complessivo di tali associazioni.
[ex. La scena della sepoltura di un uomo particolarmente corpulento, trasportato a braccio da misteriosi figuri].
Di quando in quando siamo tutti, nessuno escluso, invasi da immagini delle quali non conosciamo il senso o la provenienza, e che ci trasmettono qualcosa a livello emotivo. Lavorare su questo tipo di immagini proprio nell’incipit di un racconto o di un romanzo può contribuire a far sì che il dispiegarsi del loro senso più profondo dia, sul lungo termine, origine alla spina dorsale di un intero testo.
L’efficacia di tali soluzioni è determinata dal nostro coinvolgimento emotivo: più qualcosa sembra toccarvi nel profondo – senza che tale intensità emozionale risulti direttamente giustificata dal contenuto dell’immagine – più essa sarà capace di coinvolgere gli altri. Avrete avuto accesso a qualcosa come un “inconscio collettivo”, o una sorta di “memoria emozionale di specie”. Ciò corrisponde esattamente a quel che accade nei sogni.
Lo stesso, a maggior ragione, vale per le immagini di profonda significatività e rilevanza culturale o evoluzionistica. Siamo tutti ugualmente attratti e spaventati dai conflitti interni al potere – dalle guerre tra bande o tra fazioni politiche rivali e, più in generale, tra chi detiene i mezzi del segreto e della violenza. Inoltre, il solo pensiero di uccidere o di essere uccisi ci fa venire la pelle d’oca; si tratta, infatti, di un potente tabù culturale. Considerate infine il timore reverenziale riservato dalle civiltà umane alla sepoltura.
Ecco una scena: il cadavere di un uomo viene scagliato in una fossa da tre individui. Fanno paura. Sono precisi, professionali: hanno scavato la fossa usando la scavatrice trovata nel cortile. Sono intelligenti: hanno scelto proprio il giardino, per evitare le ricognizioni dall’alto. Eppure temono qualcosa: hanno paura che venga impiegato un tale dispiegamento di mezzi. Hanno commesso un errore, in fondo: quello di aver ucciso qualcuno dotato di molti agganci e molto influente.
Si tratta della prima scena di Prova a Fermarmi (Make Me, 2017), di Lee Child. Un fermo immagine o, forse, dovremmo dire una GIF, che mostra come nella ricchezza di dettagli significativi di un incipit possano essere racchiuse, al contempo, la trama e le possibili tonalità emotive di un intero lavoro. Eccone, di seguito, la stesura su carta:
Spostare un uomo grosso come Keever non era facile. Era come cercare di sollevare un materasso matrimoniale. Perciò lo seppellirono vicino alla casa, il che comunque era logico: mancava ancora un mese al raccolto e un'anomalia in un campo sarebbe stata visibile dall'alto. E, per uno come Keever, avrebbero controllato dall'alto. Avrebbero usato aerei da ricognizione ed elicotteri, forse anche droni.
Aprire un racconto o un romanzo in medias res, con un conflitto di qualche tipo o con una scena di movimento (indifferentemente effettuato nel mondo interiore o in quello esteriore), è una delle strategie più impiegate nella narrativa della tensione – e credo vi sorprenderebbe constatare quanti incipit si svolgono esattamente così. Siamo naturalmente colpiti da tutto ciò che possiede connotazioni emotive legate al nostro habitat evoluzionistico (come la violenza, la paura, il sospetto, la morte, la seduzione e gli agenti atmosferici). Per quanto abusato, il classico “era una notte buia e tempestosa” viene tuttora impiegato – seppur in modo implicito e di certo più descrittivo – nella costruzione di scene cinematografiche e letterarie, entrando spesso a far parte della poetica generale di un film o di un’opera letteraria.
II. tema è sempre il tema di un mondo
Non dimentichiamo, però, che una parte considerevole del processo di scrittura è rappresentata dal worldbuilding, ossia dall’atto di costruire un mondo realistico (nel senso di “credibile” e non di “fotorealistico”) e coerente. Il più delle volte, gli scrittori – soprattutto chi non lo fa di professione – credono, o vengono spinti a credere, che i dettagli e il realismo dipendano dall’accumulazione di conoscenze pregresse e, dunque, dallo studio pre-scrittura. In realtà, da questo punto di vista, non vi è alcuna differenza o distanza tra la scrittura e la conoscenza, allo stesso modo in cui non vi è alcuna differenza o distanza dalla nostra conoscenza del mondo reale e la nostra esperienza.
La costruzione di un sapere positivo a partire da un non-sapere – non da un vuoto, attenzione, ma da un eccesso di possibilità –rende la scrittura più simile a un lavoro artigianale, alla pratica dei falegnami o degli scultori, anziché a un processo intellettuale. Bisogna, in breve, “far lavorare le mani”.
Le infermiere soffrono il blocco dell’infermiera? E i camionisti? Certo, ci sono giorni nei quali preferirebbero non fare nulla, ma devono andare avanti. Un camionista sale in cabina, controlla gli specchietti e la radio, accende il camion, allaccia le cinture di sicurezza, fa partire il motore e lascia che sia la memoria muscolare a occuparsi di tutto. Ed è così che comincia il giorno. Lo stesso vale per gli scrittori. [...]
Così Child ha replicato a una domanda della rivista Lithub riguardante il cosiddetto “blocco dello scrittore”.
Ma facciamo un esempio. Mentre passeggiamo per una strada del centro, sorseggiando acqua da una bottiglietta di plastica, percepiamo ciò che i nostri sensi ci consentono di percepire, e pensiamo ciò che la nostra mente ha deciso di farci pensare – in base ad associazioni in parte emotive e in parte cognitive. Al tempo stesso, dotiamo ciascuno di questi elementi di una cornice di senso prodotta “in tempo reale”; non abbiamo alcun bisogno, in quel preciso istante, di sapere quale sia la capitale del Gambia e neppure cosa si nasconda dentro i palazzi tra i quali stiamo camminando.
Il mondo si fa mentre si cammina, e l’incipit rappresenta il primo passo. Saranno i problemi che incontreremo, di volta in volta, a far sì che il mondo emerga dalle relazioni. Credere che sia necessario condurre approfonditi studi prima di mettersi a scrivere, significa cadere preda del blocco dello scrittore. O, meglio, rendersi simili a un camionista bloccato in autostrada dall’ansia di ciò che si nasconde al di là dell’orizzonte.
La coscienza come macchina da presa – un vecchio trucco nato con il cinema e consolidato, in letteratura, dalla fenomenologia e dalla narrativa esistenzialista – è oggetto di critiche sempre più marcate. In effetti, scrivere operando un “montaggio” dell’esperienza, procedendo di immagine in immagine e di scena in scena, è una tecnica che rende l’autore più simile a una macchina che a un essere pensante. Ma, ancora una volta, soprattutto quando si vuole catturare se stessi e il lettore tra le trame di un incipit efficace, “lasciamo che siano le mani a lavorare”. Il mondo emerge da una prospettiva, ossia da un particolare taglio nel mondo; ciò che sta al di fuori di esso non deve essere necessariamente fatto entrare, benché ne costituisca la cornice di senso.
L’incipit fornisce il ritmo e il tempo della narrazione, ne stabilisce il grado di tensione e costituisce l’archetipo con il quale ogni scena sarà costretta a confrontarsi. Dato un certo ritmo e creata una certa atmosfera di tensione, non sarà più consentito deviare o puntare a ribasso. Si potrà solo andare dritti e sempre più in alto. In ciò sta l’azzardo dell’autore di storie thriller o horror.
Da questo punto di vista, una soluzione interessante impiegata di sovente nel thriller consiste nell’aprire una storia a partire da una prospettiva esterna: non con il protagonista, ma con l’antagonista; non con la situazione principale o il tema, ma con un ignaro passante; non con l’eroe ma con la vittima. Avvicinare la storia di traverso, per vie oblique, ci dà la possibilità di cogliere conoscenze altrimenti irraggiungibili.
Consideriamo una scena d’apertura nella quale un uomo in forma, ma di certo non nerboruto, stia strangolando (senza usare guanti) un giovane in divisa, magari impiegando un cavo d’acciaio.
Questa semplice combinazione di elementi (per ottenere la quale non ho dovuto riflettere che per una manciata di secondi) ci fornisce informazioni sufficienti a determinare un contesto più ampio; così ampio da implicare gli sviluppi della storia, il carattere e la natura dell’assassino, quelli dell’eroe, il tipo di indagine e persino la sua possibile conclusione. Imparare a leggere le immagini fa sì che le storie procedano in modo quasi naturale dal loro incipit.
Parte del mondo o del “background” di una storia è composta da astrazioni. Per quanto si tenda a dimenticarsene mentre si scrive – in particolar modo quando ci si occupa di fiction –, sia noi sia i nostri personaggi (beh, non proprio tutti) ci nutriamo non solo di carboidrati, grassi e proteine, ma anche di idee. Il carattere “speculativo” di un racconto o di un romanzo è definito da quanto tali idee assumono preminenza: se esse sono totalmente alla base di un’opera letteraria, allora si parla di “fiction speculativa”.
Quasi ogni opera contiene in sé un seppur minimo elemento speculativo. Persino il romanzo borghese veicola le teorie e i modi di pensare della classe media o medio-arricchita che lo produce. Ma è nella narrativa speculativa che tale traiettoria diviene il fulcro del romanzo, portando in piena vista l’elemento riflessivo nascosto. Alcuni esempi di questa tendenza sono le Operette Morali di Leopardi, alcuni racconti di E.A. Poe e H.P. Lovecraft, le raccolte di Borges, The Road di Cormac McCarthy o, ancora, Cosmopolis di Don DeLillo. Vediamo, pertanto, come anche la letteratura della tensione sia entrata nella propria fase speculativa, spingendo il thriller e l’horror a fare i conti con una nuova dimensione del pensiero complesso (come dimostrano i lavori di Michel Houellebecq, Richard S. Bakker, Richard Morgan e Thomas Ligotti).
In questo caso, l’incipit possiede uno scopo fondamentale, oltre a quelli già menzionati: esso deve stabilire il “tema” (terza figura musicale dopo il ritmo e il tempo). Il tema è la chiave di decodifica di un’intera opera, l’elemento che, una volta compreso e assorbito, consente sia all’autore sia al lettore di ottenere un quadro profondo e generale non solo di un racconto o di un romanzo, ma del tema stesso. Il tema allude sempre a qualcosa situato fuori dalla narrazione. Eccone un esempio illustre, tratto da La Guerra dei Mondi di H.G. Wells:
Nessuno sul finire del XIX secolo avrebbe creduto che questo mondo fosse sotto minuziosa e attenta osservazione da parte di intelligenze superiori a quelle dell'uomo e tuttavia ugualmente mortali; che ci fosse qualcuno che studiava e analizzava gli esseri umani occupati nelle loro varie faccende con quasi la stessa applicazione con cui un uomo al microscopio esaminerebbe le effimere creature che brulicano e si moltiplicano in una goccia d'acqua. Con infinito compiacimento gli esseri umani se ne andavano di qua e di là per questo pianeta presi dalle loro attività nella beata certezza della loro supremazia sulla materia. È possibile che lo stesso facciano i microrganismi sotto la lente del microscopio. Nessuno si preoccupava che i mondi più antichi presenti nello spazio potessero essere fonte di pericolo per gli umani; e se mai li considerava, era solo per escludere come impossibile o come minimo improbabile l'eventualità che su di essi ci fosse la vita. È strano ricordare certi preconcetti di quei giorni andati. Se un terrestre immaginava la presenza di altri uomini su Marte, lo presumeva forse al massimo inferiore a sé e pronto ad accogliere con gratitudine una spedizione di missionari di civiltà. E invece sull'altra sponda dello spazio, menti che stanno alle nostre menti come le nostre stanno a quelle delle bestie più umili, intelletti evoluti e pratici e insensibili contemplavano questa Terra con invidia e architettavano con metodo e impegno i loro piani contro di noi. E all'alba del XX secolo venne il momento del grande disinganno.
Questo è quello che personalmente considero il più grande incipit della storia della letteratura.
Veniamo infine alla resa dei conti. Ventisette anni dopo il suo primo romanzo, Lee Child ha confessato di non conoscere davvero fino in fondo il personaggio da egli stesso creato, e di essere costretto, a ogni nuovo romanzo, a farsi condurre da quest’ultimo attraverso gli eventi narrati. Non sapere cosa ci aspetta nella prossima pagina significa essere costretti a stipulare una sorta di rapporto dialettico o, meglio ancora, a “entrare in confidenza” con i personaggi, con gli ambienti e persino con le forze astratte e materiali che popolano la narrazione. Qualcosa che vale tanto per il lettore quanto per l’autore. Detto in parole povere, non siamo mai davvero soli in questo viaggio.
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Un modo di stare nel testo
Ma poi Scrivere di notte è soprattutto un modo di stare nel testo. Qualcosa che ha a che vedere con l’intensità, con la profondità e il riconoscimento.
Di cosa si parla qui sopra?
Qui si parla di scrittura, di come sono stati scritti certi libri, certi racconti, una serie, un film, un fumetto, una lista della spesa, una lettera d’amore o una resa dei conti grondante odio.
Vi racconto cosa ne penso di questa cosa che facciamo un po’ tutti, o quasi, chi meglio chi peggio, che poi si chiama scrivere, che è un po’ come la vita, senza regole, una cosa nella quale vanno bene strategie diverse per persone diverse, e atteggiamenti d’autore, e pratiche di scrittura. Niente trucchi, niente tecniche, niente fottutissime cassette degli attrezzi, per capirci.
Poi vi dico anche qualcosa al volo sugli eventi organizzati da Scrivere di Notte, sui laboratori che tengo, cose così. Ma senza esagerare.
Ogni lunedì notte.
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