Scrivere di notte incontra Sandro Campani
ALZARSI PRESTO - il libro dei funghi e di mio fratello
"Certi funghi che hai trovato, quattro anni fa o quaranta, se chiudi gli occhi li rivedi nel dettaglio. Perché quelli, fra migliaia, non lo sai: ti ritornano in sogno,come divinità di un attimo preciso."
Siamo qui per dire casa,albero, mela, funghi. Con Sandro Campani ci vediamo giovedì 28 marzo alle 21.00 sul canale di Scrivere di notte. Parliamo di questo, delle frasi, del bosco, dei posti esatti che non saprete mai.
28 marzo in diretta ore 21.00Qui:
https://youtube.com/@scriveredinotte?si=ykINCmocxweKYckM
A volte basta far parlare i testi. Leggiamo insieme. Vi lascio qui un estratto del libro. Ci vediamo domani :)
da ALZARSI PRESTO - Il libro dei funghi e di mio fratello
di Sandro Campani (Einaudi)
12.
Calanchi
Siamo all’inizio del tartufo estivo, e alcuni grani addirittura li vediamo sbucare in superficie, oppure li adocchiamo dal rigonfiamento e dalle crepe sul terreno. Ci sono tartufi che i cani non considerano, sembra non se ne accorgano neanche: noi ci affidiamo alla vista, ma i cani all’olfatto, e sanno che quei grani sono acerbi. Nel pieno dell’estate i tartufi maturano e sprofondano, e allora varrà solo il naso del cane.
Mentre Pietro cava, loro girottano nella pastura: della Chicca lui non si preoccupa, le permette di fare avanti e indietro con quel suo passo delicato, si premura di dirle: – Brava, Chicca, – e di premiarla con una crocchetta ogni volta che lei porta il tartufo; invece con la coda dell’occhio bada sempre a quel che fa la Dea, e se sta cavando le corre appresso, per evitare che rompa il tartufo o se lo mangi; le sta insegnando a non rovinarlo: – Usa le zampe, non i denti! Le cose si fanno con le mani!
Ce le teniamo addosso, le lasciamo giocare. C’è chi s’impone d’essere inflessibile coi cani, perché non si prendano mai confidenze e in ogni momento sappiano che il padrone pretende da loro il lavoro – Se è per questo, dice Pietro, c’è anche chi li chiude apposta in un recinto troppo piccolo, di modo che poi abbiano smania di uscire, o chi non dà loro abbastanza da mangiare, così che maturino più fotta di guadagnarsi i premi: ma queste baggianate fanno vivere male sia loro che te, e passare le giornate nel bosco a ’sta maniera è una schifezza. Certo, ai cani devi parlare: non puoi pretendere di startene lì offeso, immusonito, e sperare che capiscano da soli cosa sbagliano.
A volte la Chicca o la Dea si mangiano un tartufo senza neanche pensare di portartelo, e allora capisci che era marcio: sanno già che gliel’avresti lasciato. (Ma se è troppo grosso, mio fratello glielo toglie, perché non vuole si strafoghino).
Quando arrivano in una pastura, partono dai grani più facili, e l’ultimo che resta è quello il cui odore si sentiva meno, perché più acerbo o più profondo: il cane che lo trova, vuol dire che ha il naso più buono, oppure che s’impegna maggiormente.
Di norma i tartufi stanno circa una spanna sotto la superficie, ma il sistema radicale parte da molto più in basso, è collegato a quello della pianta, e allora in certi posti umidi e freschi, con un terriccio morbido, come una torta che si sbriciola a toccarlo, sono così a fondo che non ci crederesti, persino settanta centimetri, e i cani ammattiscono, perché sanno che se il profumo spinge da quella profondità, dev’essere un grano memorabile, di quelli per cui tu sarai contento: si esaltano, e tu scavi insieme a loro, per delle ore, certe volte, e allora sì che quel tartufo lo ricorderai, com’è stato per certi funghi che dopo trent’anni li potresti disegnare uguali, ad avere il talento, e ne ricordi il peso, la posizione, il colore, il primo contatto nell’averli presi in mano.
Se i cani sono attorno a un grano di quelli profondissimi e importanti, oppure a un bianco prestigioso, rispettano la loro gerarchia: il cane dominante ha la precedenza. La Biba non si sognerebbe mai di andare a scavare quello che spetta alla Chicca; sa che le prenderebbe. La Dea che è nuova deve ancora impararlo, e oggi la Chicca l’ha morsa sul naso e l’ha fatta sanguinare. Non era solo gelosia, era l’insegnamento di una regola; infatti Pietro l’ha sgridata giusto il minimo; s’è accertato che la Dea stesse bene, per un po’ ha finto un silenzio severo, e poi ha giocato insieme a tutte e due, così che facessero pace e intanto tenessero a mente.
Nel primo giro, stamattina, abbiamo nascosto la jeep all’imbocco di una gola, e abbiamo camminato fra cenge d’arenaria talmente regolari da sembrare muri fatti ad arte; l’acqua del fosso era fredda e trasparente, le sorgenti erano vicine. Abbiamo preso una pista di daini, salendo in fretta di quota, s’andava su aggrappandosi, un ripido di quelli che troncano le gambe; un bosco misto di carpini, cerri, qualche salice, un pino silvestre qua e là. Mentre eravamo così esposti, dal fondo della valletta abbiamo sentito un suono secco e artificiale: era la frenata di una mountain bike – un rumore che ci ha salito le spalle, con quella nettezza presente con cui i rumori di fondovalle ti arrivano addosso quando sei in parete più in alto, quella sensazione di mondi compresenti – tu però sai che in basso c’è qualcuno, mentre lui non sospetta di te che sei quassù. Il suono è rafforzato rispetto alla distanza, concentrato – come se qualcuno ti parlasse mentre dormi. E se è vero che da laggiù non ti sanno immaginare, e tu puoi sentirti elevato e protetto, ti senti anche lontano e perduto, e nel momento in cui quel suono ti attraversa sei costretto a chiederti chi era, e dove andrà a sparire, a struggerti per vite sconosciute che scorrono via e non torneranno.
Ogni tanto spiana un po’ e respiri – a funghi è un camminare più pesante, col tartufo c’è di bello che sulla pastura tiri il fiato. Comunque, dopo l’ultimo strappo arriviamo in cima sudati, pieni di ragnatele in faccia, e di colpo è rimasto solo il cielo, su un prato con un noce in mezzo, un altipiano silenzioso. Siamo sul bordo di un grotto spaventevole, dove del cerchio di terra bruciata che spesso segnala il tartufo è sopravvissuto uno spicchio, il resto è finito di sotto. C’è un quercione affacciato sul dirupo; con le radici regge tutto quel pezzo di terra, ma sta cedendo, anno dopo anno si inclina. Si piegherà sempre di più, finche rovinerà, tirandosi dietro tartufaia, terreno e ogni cosa.
Sul ciglione, mio fratello tiene frenati i cani, specialmente la Dea. C’è da stare attenti, non solo per loro, anche per te, perché quando fanno un po’ i matti, o ti si buttano addosso per giocare, perdi l’equilibrio, voli giù e tanti saluti. Pietro dice che quando va al nero pregiato sulle Apuane ha anche paura, perché c’è molto in grotto e tanta gente ci ha lasciato il cane o peggio.
Il secondo giro l’abbiamo fatto in una valletta riarsa di ginestre, che scende dai calanchi e muore su una cava. Siamo scesi fino in fondo a un rivo dove Pietro sperava di far bere i cani, ma era già secco, ai primi di giugno: ogni anno secca prima.
La Dea non lavorava più di tanto, però trovava i tartufi più grandi, e allora Pietro le diceva: – S’è già capito: te sei come la Biba, c’hai il culo – La scostava, per finire con lo scavetto prima che lei lo rovinasse con la sua foga, ma poi glielo lanciava qualche metro più in là, per allenarla a riportarlo.
Una valle argillosa di case in cui qualcuno ha campato, forse fino a cinquant’anni fa. Gruppetti di roverelle giovani, sparsi fra i campi in malora, pieni di forasacchi, non segati: la Chicca, che ha sei anni e si sa comportare, stava dietro la scia dei nostri passi; la Dea, che è ancora piccolina, Pietro se la prendeva in spalla.
Tanta gente preferisce i cani maschi. I supercampioni, dicono, sono tutti maschi. Pietro preferisce le femmine, perché sono più disciplinate: – Come succede a tante specie, noi compresi, i maschi hanno un problema: pensano troppo alla figa. E se per beccare una volta un campione devo girare il resto della vita con degli affari che si fermano a pisciare su ogni tronco, sai com’è.
E poi le femmine rimangono più piccole. Più peso devi portare in giro, più ti affatichi e ti rovini.
Nel punto in cui, giù basso, le piccole coste spelate che avevamo attraversato convergevano in una conca, c’era una sorgente che si sperdeva in piano, accanto a una macchia di pioppi: non ne nasceva un fosso, ma una distesa di menta selvatica, fitta, che ci arrivava alle ginocchia, perché ogni pianta gareggiava con le altre per la luce; sprofondavamo nel morbido, sollevando profumo di menta; se l’afferravi alla base del gambo, la tiravi su a mazzi, dolcemente, con le radici e tutto: ed è quello che ho fatto, per trapiantarla nell’orto.
Risalendo abbiamo controllato qualche altra pastura; mentre la Chicca lavorava, la Dea e la Biba s’erano distratte, facevano le stupide, e mi venivano attorno. Seriosa e malinconica la Chicca, professionale e affettuosa; ribelle la Dea, sgamberlona; ma soprattutto la Biba, tanto sgraziata che t’incanta: furbastra, refrattaria, con l’indolenza consumata di chi pratica il minimo sforzo, la scorciatoia, l’ammicco, e sa arrivare al risultato svicolando dalla fatica dura.
E ogni tanto anche Pietro si fermava, mentre io guardavo i cani, e capiva cosa stavo vedendo, lui che ci passa il tempo assieme; dava un colpetto di risata, con gli occhi lucidi dietro gli occhiali – l’orgoglio di una minuzia, di un riconoscimento, di aver visto il lampo in cui io mi accorgevo di qualcosa che gli riempie le giornate, ed è la vita con quei tre soggetti lì.